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Dal New Deal al nuovo sviluppo dell’economia privata e dell’impresa privata

Prima di soffermarmi sul tema dell’importanza determinante dell’interazione tra economia reale, finanza straordinaria e impresa, vorrei approfondire alcuni concetti fondamentali, anche se non sempre di facile comprensione.

Nell’introduzione al mio ultimo articolo, ho richiamato le parole di un gigante che ha illuminato il mondo, John Fitzgerald Kennedy:
“Non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese”.

Questa frase, estrapolata da un discorso più complesso, va ben oltre il significato che le si potrebbe attribuire, in termini politici, economici e giuridici.

In ultima analisi, l’affermazione, sottolinea il valore dell’approccio liberale allo Stato e all’economia, che differisce da quello liberista, per così dire, più pronunciato.

In questo sistema, la centralità di una comunità organizzata, si basa sull’essere umano e, in economia, sulla libera impresa.

Nella lingua italiana “liberismo” e “liberalismo” non hanno lo stesso significato: mentre il primo è una dottrina economica che teorizza il distacco dello Stato dall’economia (un’economia liberale è quindi una economia di mercato temperata solo da interventi esterni), il liberalismo è un’ideologia politica che sostiene l’esistenza di diritti fondamentali e inviolabili appartenenti all’individuo e l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (uguaglianza formale).

In altri termini, il liberalismo esprime un atteggiamento etico-politico dell’età moderna e contemporanea, tendente a concretarsi in dottrine e prassi, fondate essenzialmente sul principio che il potere dello Stato debba essere limitato per favorire la libertà d’azione del singolo individuo.

In questo senso, il liberalismo non si contrappone tanto, pur distinguendosene, al liberismo, ma all’assolutismo.

Non mi soffermerò sull’ingerenza delle dottrine politiche nel sistema democratico.

Mi limito a ricordare che ogni scelta nell’organizzazione della comunità non può che tradursi in norme giuridiche di diverso rango.

Infatti, la diversa dottrina economica liberale ha trovato e continua a trovare applicazione in vari Stati, sia pur con varianti, in casi di eccezionale gravità,

La frase di JFK, che ho richiamato in apertura, estrapolata da un discorso più complesso, va ben oltre il significato che le si potrebbe attribuire, in termini politici, economici e giuridici.

Questa affermazione, sottolinea il valore dell’approccio liberale allo Stato e all’economia, che differisce dall’approccio liberista più pronunciato.

In questo sistema, la centralità di una comunità organizzata, si basa sull’essere umano e, in economia, sulla libera impresa.

Franklin Delano Roosevelt, Presidente degli Stati Uniti per quattro mandati, si trovò a dover fare i conti con la Depressione americana, che avrebbe potuto coinvolgere il mondo occidentale, in un’avventura molto pericolosa e senza ritorno.

Il presidente Franklin Delano Roosevelt lanciò un nuovo corso, noto come New Deal, che avrebbe definito la sua politica e sarebbe stato caratterizzato da un forte intervento statale nell’economia del paese.

Il primo campo di applicazione delle riforme di Roosevelt fu il mercato del lavoro, poiché il presidente riteneva che il fenomeno della disoccupazione (devastante dopo il crollo di Wall Street e il crollo dell’industria) dovesse essere “parzialmente risolto attraverso il reclutamento diretto da parte del governo stesso”.

In sostanza, il governo americano aveva cercato di diventare una sorta di datore di lavoro.

Inoltre, il New Deal prevedeva l’introduzione di misure correttive al sistema finanziario attraverso “una rigorosa supervisione di tutte le operazioni bancarie, crediti e investimenti” e la fine della “speculazione con il denaro degli altri”.

Ci sono state, per la verità, resistenze ai programmi del New Deal, soprattutto da parte delle grandi aziende, e si è verificata una battuta d’arresto a causa della dichiarazione di incostituzionalità di alcune disposizioni da parte della Corte Suprema.

È difficile immaginare che Franklin Delano Roosevelt abbia abbracciato le politiche statali socialiste.

In proposito, di deve fare riferimento, com’è noto, al pensiero economico di John Maynard Keynes.

In termini molto sintetici, la scuola Keynesiana, rivolge la sua teoria economica principalmente al fenomeno della disoccupazione e giunge ad affermare che, per ridurre al minimo la disoccupazione, è necessario promuovere l’incremento dei consumi e degli investimenti.

Se per raggiungere l’entità degli investimenti necessari all’equilibrio del sistema non sono sufficienti le risorse disponibili, deve intervenire lo Stato aumentando la spesa pubblica o stimolando la spesa del settore privato, attraverso la riduzione delle imposte.

Per combattere le crisi economiche lo Stato deve intervenire anche se ciò comporta, un deficit di bilancio.

L’investimento stimola un aumento della produzione, l’aumento della produzione fa aumentare l’occupazione la quale, a sua volta, incrementa la domanda dei beni di consumo.

L’aumento della domanda dei beni di consumo stimola l’imprenditore ad accrescere la produzione; questa aumenta nuovamente l’occupazione e l’aumento dell’occupazione incrementa nuovamente il consumo e quindi il reddito nazionale.

Secondo questa concezione, la spesa pubblica deve essere finalizzata alla costituzione delle infrastrutture, intese come quelle opere che favoriscono le attività produttive dei privati (strade, ponti, porti, case, scuole ed opere pubbliche in generale).

Per il sistema italiano, deve essere riservato allo Stato, anche il settore della scuola, dell’educazione, e quello della sanità.

Questo non comporta l’abolizione dell’intervento privato in questi due ultimi settori.

Quello che conta è che, a parità di iniziativa pubblica e privata, lo Stato possa garantire il diritto allo studio ed all’assistenza sanitaria.

Da ultimo, deve essere ricordato come sullo Stato gravi l’organizzazione e la gestione della pubblica amministrazione, dell’apparato pubblico, in tutte le sue articolazioni.

In proposito, si parla, nel diritto costituzionale e in dottrina dello Sato, di Stato apparato, che si distingue dallo Stato comunità.

In questo ambito rientrano, a titolo esemplificativo, la gestione del potere legislativo, esecutivo, della funzione giudiziaria, della difesa, e via dicendo.

Come illustrato in conclusione di questo articolo, con un richiamo al Premio Nobel, Franco Modigliani, nell’ambito delle funzioni demandate allo Stato e agli enti locali, rientra la burocrazia, autentico male dell’organizzazione pubblica e freno dello sviluppo economico e sociale del paese.

La rivoluzione Keynesiana provocò grossi mutamenti nell’atteggiamento degli economisti e dei politici, in tema di bilancio dello Stato.

Tuttavia, è bene precisare come Keynes non è stato, né si è mai considerato, un socialista.

È stato un liberal, nel senso anglosassone, che assume questa espressione: crede fermamente nelle virtù del sistema capitalistico, ma è altrettanto fermamente convinto che l’economia di mercato vada sistematicamente integrato con l’azione dello Stato a sostegno della domanda globale, per colmare il gap tra reddito effettivo e reddito potenziale al fine di evitare una cronica condizione di sottoccupazione delle risorse.

La sua opera principale, in cui vengono postulati gli assunti della dottrina keynesiana, intitolata “Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta” (1936), fornì le linee guida alle quali si ispirarono le iniziative del New Deal, promosso, come ho detto, dal Presidente americano Franklin Delano Roosevelt, che riuscì a risollevare le sorti dell’America, attuando un massiccio intervento statale in campo economico.

Roosevelt, pur non essendo riuscito completamente a rilanciare l’iniziativa economica privata, ha avuto il merito di comprendere che era necessario trovare un modo per regolare il mercato, attuando misure correttive, per evitare il ripetersi dei fenomeni speculativi che avevano innescato la crisi e la Grande Depressione.

Nel pensiero di Franklin Delano Roosevelt, rimaneva la necessità di rinvigorire l’iniziativa economica privata.

In un periodo molto più recente, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di fronte alla tragedia del Covid, ha adottato una serie di misure per assistere imprese e privati, con il deposito diretto di somme di denaro sui conti bancari dei destinatari, nell’arco di pochi giorni.

Questa scelta ha successivamente portato ad una forte crescita della domanda di lavoro, insieme ad un aumento dell’inflazione, che la Federal Reserve sta attualmente cercando di contenere attraverso un aumento di 25 punti base del costo del denaro, secondo la recente comunicazione del 26 luglio 2023, che ha scatenato vigorose proteste anche negli Stati Uniti.
Quanto ho scritto nelle righe precedenti vuole sostenere l’idea che l’intervento statale nell’economia dovrebbe essere riservato esclusivamente ai settori indicati ed ai casi di crisi eccezionali e straordinarie, come accadde negli Stati Uniti con Franklin Delano Roosevelt alla fine degli anni ‘20 dello scorso secolo, così come durante la pandemia di Covid negli Stati Uniti e in Europa.

All’interno dell’UE si sono osservati comportamenti diversi tra i vari Stati membri.

In Italia, l’organizzazione e l’erogazione dei servizi essenziali e fondamentali e la garanzia del rispetto dei diritti sanciti dalla Costituzione, restano di competenza dello Stato e degli enti locali.

Al di fuori di questi ambiti, l’iniziativa privata deve essere il fondamento dell’economia del Paese e del suo sviluppo.

La storia italiana, ci ha mostrato come il nostro Stato sia stato coinvolto in numerosi settori economici, a scapito della concorrenza.

Lo ha fatto, ad esempio, nei settori dell’elettricità, della telefonia, del gas e dell’acqua.

Il fenomeno dello Stato imprenditore ha assunto dimensioni significative nel secondo dopoguerra, ma, a partire dai primi anni Novanta, ha visto una chiara inversione di tendenza con l’avvio di un ampio programma di privatizzazioni.

È interessante notare che l’opinione pubblica è ancora fortemente intrisa di statalismo: il coinvolgimento del settore privato, soprattutto nei servizi essenziali, è visto con sospetto e sfiducia, per paura di una teorizzata incompatibilità tra profitto e interesse collettivo.

Tuttavia, la nostra esperienza ha dimostrato che l’intervento pubblico nell’economia non è più vantaggioso per i cittadini, spesso viziato da inefficienze e sprechi, che si traducono in servizi di scarsa qualità, con insussistente propensione all’innovazione e alla competitività sul mercato.
Alla luce di questa premessa, riguardante l’organizzazione politica, economica e giuridica del Paese, vorrei tornare all’intersezione tra la nostra economia reale, la finanza straordinaria privata e le imprese.

Per “economia reale”, intendiamo quella parte dell’economia connessa alla produzione e distribuzione di beni e servizi.

L’economia reale comprende le imprese, i beni che producono, i terreni, gli immobili, i macchinari e tutti gli altri beni legati alla produzione, nonché i fornitori di servizi.

In questo contesto, l’occupazione, fonte di produttività e di reddito per le imprese, non deve assolutamente essere dimenticata né sottovalutata.
Più si creano opportunità di incremento dell’occupazione nell’economia reale, maggiore è la produttività delle imprese.

Nell’economia reale, le imprese cercano risorse per realizzare i propri investimenti produttivi in attrezzature, tecnologia e risorse umane.
In un certo senso, torno al punto da cui ero partito in un precedente mio intervento.

L’economia moderna può basarsi solo “sull’intersezione tra finanza privata e impresa”.

È noto che le piccole e medie imprese costituiscono la spina dorsale dell’economia italiana.

Non è un segreto che, nonostante l’aumento dell’occupazione, le imprese siano in crisi.

Ancora peggio della crisi economica è la psicosi, ormai ampiamente diffusa.
Ciò richiede nuove scelte, alcune delle quali sono state riconosciute e articolate dal Consiglio dell’Unione Europea.

Nella Raccomandazione del 22 maggio 2018, relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente, l’UE individua proprio le competenze chiave, come abilità fondamentali.

Queste competenze consentono ai cittadini di acquisire autonomamente nuove conoscenze e abilità ,nel corso della loro vita.

Tra gli strumenti per l’apprendimento permanente troviamo anche la competenza imprenditoriale:

“La competenza imprenditoriale si riferisce alla capacità di agire su idee e opportunità e trasformarle in valore per gli altri. Si basa sulla creatività, sul pensiero critico, sulla risoluzione dei problemi, sull’iniziativa e sulla perseveranza, nonché sulla capacità di lavorare in modo collaborativo per pianificare e gestire progetti con valore culturale, sociale o finanziario.
La competenza imprenditoriale presuppone la consapevolezza che esistono diverse opportunità e contesti in cui le idee possono essere trasformate in azioni nelle attività personali, sociali e professionali, e la comprensione di come queste opportunità si presentano.
Le persone:

  • dovrebbero conoscere e comprendere gli approcci alla pianificazione e alla gestione del progetto, sia in termini di processi che di risorse.
  • dovrebbero comprendere l’economia, nonché le opportunità e le sfide sociali ed economiche affrontate dai datori di lavoro, dalle organizzazioni o dalla società.
  • dovrebbero anche essere consapevoli dei principi etici e delle sfide dello sviluppo sostenibile ed essere consapevoli dei propri punti di forza e di debolezza.
    Le capacità imprenditoriali si basano sulla creatività, comprendendo l’immaginazione, il pensiero strategico, la risoluzione dei problemi, la riflessione critica e costruttiva in un contesto di innovazione in evoluzione e processi creativi.
    Queste competenze includono la capacità di lavorare, sia individualmente, che in modo collaborativo in un gruppo, mobilitare risorse (umane e materiali) e mantenere il ritmo dell’attività.
    Ciò comprende la capacità di prendere decisioni finanziarie relative a costi e valori”.

Queste sono indicazioni, da tenere in adeguata considerazione, a livello nazionale, internazionale, ed extra UE.

La capacità di comunicare e negoziare in modo efficace con gli altri e di gestire l’incertezza, l’ambiguità e il rischio come fattori per prendere decisioni informate è essenziale.

Una mentalità imprenditoriale è caratterizzata da iniziativa, auto-consapevolezza, pro-attività, lungimiranza, coraggio e perseveranza nel raggiungimento degli obiettivi.

Una mentalità imprenditoriale implica, o dovrebbe implicare, il desiderio di motivare gli altri e la capacità di valorizzare le loro idee, dimostrare empatia, prendersi cura delle persone e del mondo e accettare la responsabilità applicando approcci etici in ogni momento.

“L’imprenditorialità” è una scelta tanto cruciale quanto impegnativa.
L’impresa è una comunità, giuridicamente organizzata, nella quale si intersecano una serie di questioni molto complesse.

Ci sono problemi sia interni che esterni.

Il legame, che collega queste due facce della medaglia, per così dire, è l’equilibrio economico-finanziario.

Se Franklin Delano Roosevelt, oltre a contribuire in modo significativo alla sconfitta del nazismo e del fascismo in Europa, ha avuto l’intuizione di riconoscere la necessità di un nuovo corso, il New Deal, la recente raccomandazione del Consiglio dell’Unione Europea sembra delineare l’orizzonte del nuovo mondo dell’impresa, insieme all’economia e alla finanza.

Ho già affermato, in altra sede, che il sistema bancario è obsoleto.
Vaste zone del Paese non hanno più filiali bancarie.
Il sistema bancario, a livello internazionale, si base, sempre più, sui servizi online.

È anche noto che le imprese sono in difficoltà.

La richiesta di un prestito bancario, oggi molto difficile da ottenere e ad alto rischio, crea debito per l’impresa.

Molti imprenditori, che potrebbero vedere crescere le proprie imprese e investire in nuove produzioni di qualità, in nuovi mercati, in aumento dell’occupazione, rifiutano di considerare un’alleanza temporanea con un fondo di investimento, che tuteli l’italianità dell’azienda e il suo sviluppo, l’aumento del fatturato e della redditività, perché credono che dovrebbero rimanere gli unici decisori, per così dire.

Questa è un’idea obsoleta.

È vero che, i fondi che scelgono di investire in imprese italiane, apportano capitale e, quindi, capitale di rischio e richiedono una partecipazione, nella maggior parte dei casi, di maggioranza nella società.

Tuttavia, ciò non toglie il controllo che l’imprenditore debba continuare a svolgere la sua attività e il fondo resta un socio, con un adeguato controllo della finanzia aziendale.

L’investitore, deve raccogliere fondi per ripagare gli investitori che hanno riposto in esso la loro fiducia.

Tra questi, in varie parti del mondo, ci sono i cosiddetti investitori istituzionali, tra cui le banche, anche le più grandi del mondo.

Dal momento che una banca crede, nell’affidarsi ad un fondo, per aumentare i propri profitti, evidentemente il motivo è che questo risultato può e deve essere raggiunto al di fuori del sistema bancario.

All’imprenditore è chiesto di continuare a lavorare bene e meglio, potendo utilizzare gli investimenti del fondo per ammodernare l’azienda, creare nuovi prodotti, espandersi in mercati diversi, diversificandoli a seconda dei potenziali momenti di crisi in questo o quell’ambito.

Il fondo deve recuperare l’investimento, più un profitto, che deve essere distribuito tra il fondo stesso e gli investitori.

L’imprenditore, in qualità di socio, vede aumentare i propri guadagni ed il valore della propria quota di partecipazione al capitale sociale.

Nell’ambito del private equity, l’impresa deve essere attrattiva, in grado di competere e aprire nuovi spazi di mercato.

Deve essere almeno una piccola impresa, con un fatturato annuo di almeno due milioni di euro.

Non sono escluse le medie e grandi imprese.

I settori di investimento sono molto diversificati, dall’agricoltura alla ristorazione, alle nuove tecnologie applicate a quest’ultima, all’alimentare, ai centri estetici, e così via.

Financo il settore delle agenzie di viaggio ha ricevuto il sostegno di fondi di private equity.

Il punto focale della citata raccomandazione del Consiglio Europeo, a mio modesto avviso, è rappresentato dal tanto citato concetto di “creatività”, al quale mi sento profondamente legato, proprio come ai sogni.

I sogni devono essere tradotti in progetti, basati su sano e attento pragmatismo e concretezza.

Cos’è la creatività se non il sogno tradotto in intuizione concreta dell’essere umano?

Il secondo punto fondamentale, personalmente, lo identifico nella capacità di “assumere decisioni finanziarie”.

Di norma, la partecipazione al capitale sociale della società, di un fondo, dura cinque anni.

Tutto è regolato da accordi sociali vincolanti e sicuri, che garantiscono la posizione di entrambe le parti.

La fase di uscita del partner finanziario, potrà durare fino ad ulteriori cinque anni, a seconda degli accordi e delle opportunità concrete.

La durata di questo intervallo di tempo, dipende dalla volontà dell’imprenditore di riacquistare tutto il capitale, da restituire in un arco di tempo variabile o dalla necessità di trovare un nuovo partner industriale o finanziario, cioè da un altro fondo, o da diverse valutazioni e opportunità.
L’imprenditore non si troverà nella situazione iniziale ,ma con un’azienda con redditività, fatturato e dimensioni più elevate.

Alla fine, l’azienda sarà più grande, più competitiva e meglio attrezzata per espandersi ulteriormente.

Obiettivo del fondo di private equity, è spesso quello di accompagnare la società, nella quale è entrato come socio, alla quotazione in Borsa, con la creazione di nuovi investimenti nel capitale sociale, che, in questo caso, diventa capitale flottante.

Potrebbe sembrare uno scenario bizzarro, impressionante o poco familiare, ma fa già parte della storia delle aziende che si sono affidate al settore finanziario privato.

Poi, le forme di intervento di un fondo sono molto diversificate.
La normativa italiana, prevede strumenti per l’aggregazione delle imprese, come le reti di imprese.

A mio avviso sono già superati in termini di esigenze economiche e imprenditoriali o, quanto meno, possono rappresentare un primo passo verso ulteriori sviluppi della collaborazione tra le imprese coinvolte.

A titolo esemplificativo, sarebbe molto più conveniente e redditizio creare una holding di controllo, nella quale ciascuna società apporta il proprio patrimonio, attraverso una fusione per incorporazione, con la partecipazione di un fondo di private equity.

Naturalmente non si può pretendere che un fondo entri con una quota di maggioranza superiore al 60-65% del capitale sociale.

È evidente che l’imprenditore deve partecipare all’aumento del capitale sociale, per equilibrare le posizioni tra i soci.

Altrimenti sarebbe come cercare di fare affari con i soldi degli altri, uno scenario sconosciuto alla realtà naturale ed economica.

Lo ribadisco.

A differenza dei prestiti bancari che creano debito, l’ingresso nel capitale sociale di un terzo non lo fa.

L’impresa italiana, eccellenza mondiale, merita di crescere utilizzando strumenti più moderni.

In questo ambito, il collegamento tra finanza privata e impresa è una scelta irrinunciabile.

Molti si affidano alle forme di finanziamento a fondo perduto, o ipotesi analoghe.

Si tratta sempre di iniziative che hanno tempi burocratici lunghi e a carattere spot.

C’è bisogno, non di iniziative estemporanee, ma di interventi di visione a lungo termine.

Una banca che concede un prestito, indipendentemente dal fatto che si tratti di casi impossibili e molto rischiosi, è un creditore che costa e, naturalmente, vuole indietro i soldi, insieme agli interessi.

Questo non accade con un fondo di private equity, che è un socio che guadagna dai dividendi, proprio come l’imprenditore, e, alla fine del rapporto, cede la propria quota di partecipazione.

Il fondo di private equity, apporta capitale, che non crea alcun debito per l’impresa.

Un fondo di private equity deve generare un rendimento sul capitale investito.

Da ciò consegue il ritorno economico per l’imprenditore.

Il principio alla base della scelta di aumentare la capacità produttiva, la redditività e il fatturato delle imprese, attraverso la finanza privata, con operazioni straordinarie, è in definitiva la creazione di nuova ricchezza.

Emergono, e sono emerse, gravi crisi internazionali, che hanno portato ad un rilevante aumento del costo delle materie prime, l’aumento dell’inflazione, affrontato, negli USA come dalla BCE, con l’aumento del costo del denaro.

Questi fenomeni hanno ripercussioni pesantissime sul sistema paese, sigli imprenditori, sia italiani che di altri paesi dell’Occidente.

Questo ci porta a sottolineare, una volta di più, come l’impresa della, per così dire, allargare le proprie spalle, per resistere adeguatamente ai contraccolpi di questi fenomeni.

Nella contingenza attuale, l’unica materia prima, che ha incrementato il proprio valore, è l’oro purissimo, che è considerato come investimento, in forme di acquisto rateizzato negli anni, e rappresenta il bene rifugio per eccellenza.

Negli ultimi vent’anni, il valore dell’oro è aumentato più del 500%.
I primi acquirenti sono le banche centrali.

Di questo tema, tuttavia, mi occuperò in un altro articolo.

In un sistema economico liberale, la creazione di nuova ricchezza, è affidata, innanzitutto, all’imprenditore.

Si è tracciato, in questo articolo, un percorso che muove da situazioni di straordinaria gravità, che necessitano dell’intervento dello Stato, alla gestione, rinnovata, moderna ed adeguata, del settore privato, nel quale devono essere presenti più attori: l’impresa e la finanza privata.

In questi termini, ho cercato di articolare il mio ragionamento.
L’imprenditoria italiana come può essere valutata e quali potenzialità potrebbe avere?

A questo proposito, vorrei ricordare una dichiarazione del premio Nobel per l’economia, Franco Modigliani, italiano naturalizzato statunitense:
“Le capacità imprenditoriali degli italiani sono uniche al mondo. Se l’Italia avesse un sistema politico, amministrativo e sociale serio, sarebbe il primo Paese al mondo. Davanti a tutti. Anche gli Stati Uniti”.

È allora possibile superare un sistema burocratico del XIX secolo, ancora organizzato contro gli interessi del Paese e disfunzionale da decenni?
È possibile superare la crisi della rappresentanza nel sistema politico?
Secondo me, il sistema economico moderno è in grado di affrontare tutti questi problemi.

Dobbiamo cambiare mentalità, guardare a nuovi orizzonti, basandoci su strumenti già disponibili.

Vogliamo accogliere le riflessioni di Franco Modigliani e raccogliere la sfida che da esse nasce?

Le aziende italiane devono crescere e diventare sempre più competitive, garantendo le nostre eccellenze in tutti i settori, a un prezzo che possa ancora invogliare gli acquirenti ad acquistare prodotti italiani in un mercato competitivo e equilibrato.


Author: Claudio Gandini
Iscritto all’Ordine degli avvocati di Milano e patrocinante presso le giurisdizioni superiori ed a quelle dell’Unione Europea. Svolge attività in materia di consulenza d’impresa, finanza d’impresa, Gold advisor.