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Diversità e inclusione nel mondo delle imprese

Diversità ed inclusione: dopo la trasformazione digitale e le politiche di lavoro agile, il terzo fattore di successo che ancora fatica a farsi strada nel mondo aziendale.


1. Introduzione

Credo fosse il 2015 quando per la prima volta mi trovai a discutere di trasformazione digitale in un contesto di impresa. L’idea alla base era che tramite nuovi sistemi e tecnologie si potessero repentinamente aumentare efficienza, produttività e quindi anche i risultati di business.

Oggi nel 2022, nonostante goffi tentativi di muoversi in questa direzione acquistando tecnologie all’avanguardia e commissionando costosi progetti, molte aziende sono però ancora alla ricerca di tale trasformazione. Ciò che non sta funzionando è che a supportare questo percorso mancano spesso gli elementi di cultura aziendale e forma mentis necessari. Sappiamo tutti come si opera in azienda: bisogna fare e produrre, mandare avanti il business, sempre con troppo poco tempo per soffermarsi sulle strategie di lungo periodo perché c’è tanto, troppo da fare oggi. Diventa facile dimenticarsi di capire se tutto stia ancora funzionando e se i dipendenti stiano operando nelle migliori delle condizioni per la loro produttività ed il loro benessere.

Viene quindi a mancare quello “empowerment” che deriva dalla comprensione delle vere problematiche che il business sta affrontando e dall’avere messo in piedi le giuste azioni per gestirle sia lato consumatore che lato dipendente. Certamente nuovi strumenti più potenti possono facilitare il lavoro, ma non sono sufficienti. Ce ne rendiamo conto soprattutto nei momenti in cui il nostro modello viene maggiormente stressato, ad esempio in caso di forte domanda o di una crisi di mercato. In questo senso la pandemia di Covid19 è stata una sveglia per molti, perché ci ha obbligati a fare i conti con nuove sfide, come tenere alte le vendite anche con negozi fisici chiusi, o far progredire l’azienda anche non potendo andare in ufficio e dovendo fornire comunque ai dipendenti tutti gli strumenti di cui avevano bisogno.

Tuttavia in questo articolo non approfondiremo il tema della trasformazione digitale, né parleremo ancora di Covid19, che a mio avviso non ha portato nulla di nuovo a livello di problematiche aziendali, aumentando semplicemente la consapevolezza su quanto già presente prima. Ho deciso di cominciare da qui perché credo che mai come durante la pandemia sia emersa l’importanza di avere una mentalità aperta e pronta al cambiamento, dimostrandosi fattore di successo per alcune aziende che ne sono uscite talora persino rafforzate, ed altre che hanno dovuto fare i conti con una gestione obsoleta, fonte di una strategia di impresa inadatta sia per i dipendenti che per i consumatori.

Gli ultimi dieci anni se guardiamo da lontano, con cambiamenti più o meno forti e repentini, ci hanno costretto a fare i conti con nuove esigenze personali di dipendenti e consumatori rispetto ai valori trasmessi dall’azienda, che ora sembrano diventati fattori critici di successo. Le aziende stanno quindi affrontando non solo quel famoso upgrade tecnologico per cui tanto sono disposte ad investire, ma più o meno consapevolmente anche la sfida di un modus operandi tradizionale in favore di una nuova mentalità.


2. I dipendenti: il nostro cliente più importante

In questo articolo mi riferisco spesso di proposito sia ai lavoratori che ai consumatori come soggetto che subisce le azioni di un’impresa. Ritengo infatti importante soffermarci su quanto sia divenuto strategico comprendere e supportare i dipendenti nel raggiungere il loro massimo potenziale. Storicamente ci si è abituati a fare tutto il possibile per soddisfare un cliente “che ha sempre ragione”, dando invece per scontato che i lavoratori operino senza particolari riguardi dall’alto, dovendo già essere grati di avere un impiego ed uno stipendio.

I dipendenti sono la principale risorsa per un’azienda, perché con il loro impegno quotidiano sono i responsabili della soddisfazione del cliente. Eppure se leggiamo sondaggi sul web o parliamo con i colleghi, non è insolito sentire chi lamenta condizioni lavorative di sfruttamento, e mancanza di rispetto per il lavoro e la persona da parte del loro capo o altri superiori. Alcune consuetudini che venivano una volta accettate come tipiche delle realtà aziendali non vengono più tollerate, così che quella mentalità manageriale degli anni ‘80-’00 che ha determinato il successo di molti, viene ora percepita come svilente e dannosa per l’individuo ed il luogo di lavoro.

Siamo in un momento storico in cui le persone hanno preso coscienza di essere prima di tutto persone, e poi parti di un processo produttivo. Se questa individualità non viene riconosciuta e rispettata dall’azienda in cui si è, ce ne sarà un’altra a farlo; e questo cambia tutto rispetto a quando si lottava per ottenere e poi tenere un posto di lavoro per quanto più a lungo possibile. E’ così che si è verificato il fenomeno conosciuto come the Big Resignation, la grande ondata di dimissioni che ha seguito la pandemia, guidata da ragioni legate principalmente a condizioni lavorative non più ritenute accettabili.

Questo trend sta trasformando drasticamente il modo di fare impresa e l’approccio alle risorse umane, perché se è vero che ogni dipendente è un singolo con bisogni che si aspetta gli siano riconosciuti, allora le vecchie politiche standardizzate di gestione del personale non vanno più bene, e si richiede un’immediata revisione che possa abbracciare una forza lavoro più esigente e consapevole di sé.

È sufficiente aprire Linkedin per vedere quotidianamente articoli e discussioni in merito al rientro in ufficio post-pandemia che ha alimentato l’ondata di dimissioni appena citata. Alcuni hanno preso coscienza di una maggiore qualità della vita a fronte di un immutato risultato lavorativo, quindi è ovvio che qualcosa stoni nella narrativa del “back to normal”. Nessuno ci vuole tornare a quel “normal”, perché sa di superato ed inappropriato. Certo, non possiamo generalizzare. Lavorare da remoto non è per tutti e non deve diventare un imperativo; molti gradiscono il proprio ufficio, magari per staccare dalla famiglia o per concentrarsi meglio, ma ciò che conta è che rimanga una scelta. Come dicevamo, non si cercano nuove policy standardizzate, ma un nuovo approccio più inclusivo dei bisogni di ciascuno, che possa aiutare i dipendenti ad essere la versione di se stessi più produttiva e felice.

Ed al contempo, le politiche di lavoro agile e la trasformazione digitale vanno anche a braccetto con la sostenibilità, altro elemento identitario che molti lavoratori ora cercano nella loro azienda. Meno ore con il motore acceso nel traffico, meno energia consumata, ed un utilizzo di risorse più consapevole, che sia in strutture, in dispositivi o in materie prime. Ha senso dirlo perché sembra spesso che si discuta di qualcosa che va a solo vantaggio del dipendente, quando in realtà sono tutte tematiche che per l’azienda rappresentano una doppia vittoria nel medio-lungo periodo.
In sostanza, dove i manager non hanno ancora saputo intervenire, il dipendente arriva in soccorso a gran voce, proprio come il più esigente dei consumatori non soddisfatti, per provare a raddrizzare il tiro.


3. Persone, non macchine

Viene ora da chiedersi come mai queste iniziative che presentano aspetti positivi per tutti i soggetti coinvolti, crescita per le aziende e benessere per i dipendenti, non abbiano ancora trovato attuazione in numerosi contesti. Come toccato in precedenza, il problema giace in modi di operare ispirati a modelli imprenditoriali di successo del passato, che non si adattano più alla realtà aziendale contemporanea, mutata a seguito delle forti trasformazioni sociali e culturali avvenute nell’ultimo decennio.

Si parla ad esempio di “mentalità italiana” per riferirsi ad un modo molto autoritario di gestire il personale, dove il dipendente è visto come esecutore di un volere calato dall’alto e non ha necessariamente margine per integrare con le proprie idee né di gestire il proprio lavoro nelle modalità che ritiene più adatte. Da molti questo approccio non è percepito solamente come limitante, ma viene vissuto al pari di un rapporto non paritario fra padrone e servo. E’ chiaro che per chi gestisce un team o un’azienda, poter dare indicazioni precise e vederle eseguite senza obiezioni possa risultare sinonimo di una forte leadership di successo, ma nella pratica questo atteggiamento ha generato ambienti di lavoro statici dove non c’è spazio per idee differenti, per sensibilità e bisogni personali, dove sostanzialmente vi sono macchine che non hanno modo di contribuire in maniera positiva nè alla crescita aziendale né a quella personale.

Un tempo si richiedeva al lavoratore di lasciare fuori dall’ufficio i problemi, di modo che durante l’orario lavorativo si potesse focalizzare a pieno sulle sue mansioni senza distrazioni. Era sinonimo di professionalità. Oggi questa richiesta viene invece vista come una violenza, di chi pretende di ignorare che ciascuno di noi abbia obiettivi e problemi con cui confrontarsi ogni giorno. I lavoratori sono esseri umani prima di tutto e come tali vogliono essere riconosciuti e rispettati anche sul luogo di lavoro.


4. Verso un luogo di lavoro inclusivo

Comprendere e rispettare la diversità dei dipendenti sta quindi diventando un imperativo su cui le aziende devono investire tempo e risorse, perché è chiaro che una trasformazione di mentalità non possa avvenire dall’oggi al domani senza gli adeguati strumenti e strategie. Si tratta di un percorso complesso, volto a fornire ad ogni dipendente il miglior contesto possibile in cui operare per poter essere la versione di sè più felice e produttiva, con il conseguente ritorno economico per l’azienda.

Eppure, parlando con un po’ di amici e colleghi, sembra sempre che diversità ed inclusione (da qui in poi D&I), siano tutto sommato un tema su cui sono tutti già attivamente impegnati e prossimi all’arrivo. Sento spesso ad esempio dire che ci sono già donne nei ruoli di potere, che non si tollerano discriminazioni sull’orientamento sessuale e che l’azienda apre le porte a diversità di ogni tipo, come scritto anche nelle offerte di lavoro pubblicate su Linkedin. E’ come se fosse stato fatto il compitino e si potesse passare al prossimo punto.

Credo infatti che da un lato sia chiaro il vantaggio di business e ci sia reale interesse a raggiungerlo. Se i dipendenti si sentono accolti, rispettati e supportati si impegneranno maggiormente e diventeranno più fedeli all’azienda con conseguente riduzione di turnover. Inoltre sarà più facile attrarre talenti perché l’azienda maturerà una buona reputazione e potrà offrire ai candidati qualcosa di più interessante che il semplice seppur fondamentale stipendio. D’altra parte però essendo un tema relativamente nuovo, non sembra essere ben chiaro cosa significhi essere inclusivi.

Per potersi definire tale non è infatti sufficiente per un’azienda creare diversità con alcune assunzioni o promozioni mirate. I due concetti di diversità ed inclusione compaiono spesso insieme nella narrativa, ma sono ben distinti e funzionano solo se entrambi presenti. Si pensi ad esempio a contesti multiculturali dove non è stata fornita un’educazione adeguata, in cui si sviluppano discriminazione, ghettizzazione, nonchè violenza verbale e fisica verso la persona di origine afroamericana o verso due ragazzi dello stesso sesso che si tengono per mano in pubblico. Lo stesso avviene in ambito aziendale, se ad esempio banalmente un uomo non comprende come una donna possa ricoprire ruoli dirigenziali e non le presta pertanto il medesimo rispetto che presterebbe ad una persona di sesso maschile nel medesimo ruolo. È un esempio che sta diventando fortunatamente un po’ obsoleto, ma che chiarisce molto bene come diversificare non sia sufficiente se non se ne comprende il valore, anzi possa diventare controproducente.

La diversità può essere genericamente definita come una serie di caratteristiche identificate dalle persone come distintive di un gruppo. Per sua natura, essendo un elemento creato da e per l’uomo, non è definibile univocamente e varia in base alla geografia ed al periodo storico, oltre che al contesto analizzato. Ai fini della nostra conversazione mi focalizzerò pertanto su ciò che ritengo più significativo nella valutazione di discriminazione ed inclusione in quello aziendale.


4.1 Parità di genere

Nel mio percorso di carriera ho avuto la fortuna di incrociare numerose aziende che si stavano già attivando per fornire condizioni di lavoro e crescita eque per le donne, probabilmente anche in virtù di una superiorità numerica che fa emergere forte e chiara la problematica. Sebbene il percorso sia ancora lungo affinché si possa dire ciò di tutte le aziende, il cambiamento sta quindi già avvenendo.

Rimangono tuttavia alcuni zoccoli duri su cui lavorare, a partire dal congedo di maternità, percepito tutt’oggi come una perdita per l’azienda causata da un’esigenza personale del dipendente. Ci sono alcuni quesiti che ci possono aiutare a riflettere se valga la pena ritenerlo effettivamente tale o se sia solo l’ennesimo retaggio di un modo di fare impresa tossico ed obsoleto. Vale ad esempio la pena chiedersi se ci convenga come azienda rinunciare ad assumere una donna di grande talento per paura che potrebbe rimanere assente per alcuni mesi. Il suo lavoro comincia prima e prosegue dopo il congedo, portando nel frattempo crescita e cambiamento. Vogliamo davvero rinunciare ad un dipendente eccezionale che potrebbe darci grandi soddisfazioni per anni solo perché potrebbe stare
fuori alcuni mesi? Inoltre, in caso di gravidanza perché si dà per scontato che sia lei a prendersi il congedo invece del partner? E se il partner fosse un uomo, non hanno forse anche gli uomini diritto a prendersi un congedo parentale? Magari proprio al posto della madre, che invece preferisce continuare a lavorare. Perché quindi con gli uomini non si indagano le intenzioni di avere figli in fase di colloquio o nel percorso di carriera?
Se ne potrebbe parlare a lungo, ma è evidente che tirare in mezzo la genitorialità quando si discute di come un dipendente potrà contribuire alla crescita aziendale è ormai inutile oltre che fuori luogo. Non è un metro di misura del contributo che una persona può portare.

Ho poc’anzi poi intenzionalmente citato anche gli uomini in questo senso, perché in maniera speculare la disparità di genere pesa anche su di loro. Dagli uomini ci si aspetta che siano più presenti e dediti al lavoro, più responsabili e professionali, più risoluti e determinati. Ci si aspetta poi che un uomo tenga da parte la propria sensibilità, che voglia fare carriera ed assumersi responsabilità maggiori, che voglia sostanzialmente dedicarsi all’azienda mentre la moglie si occupa della prole. Sono tutti retaggi, idee tanto sbagliate quanto radicate. Riuscire a liberarsene e valutare un dipendente puramente in base al suo risultato e non al suo genere sarà una grossa vittoria per tutti, non solo per le donne, e siamo pertanto tutti chiamati a contribuire a nostro modo.


4.2 Sessualità e identità di genere

Se ci rivolgiamo ora al mondo LGBTQ, è facile rendersi conto della posizione netta e positiva che molte aziende hanno assunto nell’ultimo decennio a sostegno delle persone omosessuali, seppur spesso con tentativi goffi di strizzare l’occhio con qualche campagna marketing dedicata e qualche prodotto con sopra un arcobaleno. Se da un lato fa piacere notare una maggiore sensibilità all’argomento, dall’altro non è tramite sporadiche azioni di comunicazione che si va ad intervenire su quei muri invisibili che si creano da e verso la comunità LGBT nei contesti aziendali.

Presentiamo ad esempio una situazione quotidiana molto verosimile. In un gruppo di colleghi dove una persona è omosessuale, anche in un contesto di totale accettazione è frequente che non vengano trattati temi personali che la riguardino nello specifico. Un manager si sente ad esempio sereno a chiedere ad un membro eterosessuale del proprio team come sta la moglie, ma potrebbe non ritenere opportuno chiedere ad un omosessuale come sta il marito. Questo non avviene tanto perché si sia contrari, ma perché si ha paura di toccare una sfera personale ed argomenti che non si conoscono a sufficienza, finendo per generare disagio e figure barbine. Lo stesso vale per la persona omosessuale, che magari non sente di poter condividere tutto di sé per paura di ritorsioni al lavoro o giudizi, quando magari sarebbe tutto assolutamente ok. E questi muri invisibili diventano ancora più spessi tanto più complessa diviene la tematica, ad esempio se si parla di persone transgender o di identità di genere.

Non è peraltro neanche tanto vero che siano temi complessi, quanto che siano temi nuovi e difficilmente discussi. Nelle scuole non viene fatta educazione alla diversità sui temi LGBT, per cui è pienamente comprensibile che non si sappia gestire in maniera adeguata l’argomento. Come persone e come aziende abbiamo però l’occasione e la responsabilità di abbattere questi muri, con un’educazione puntuale ed una comunicazione dedicata, che non solo soddisferà e rispecchierà meglio la diversità del nostro consumatore e dei nostri dipendenti, ma costituirà anche un prezioso strumento per le relazioni umane esterne al luogo di lavoro. In questo senso ritengo fondamentale il ruolo sociale che le aziende hanno nel promuovere i valori dell’inclusione, traendo un vantaggio di business mentre forniscono un servizio alla comunità.


4.3 Cultura e religione

Parlando di relazioni umane fra individui di culture diverse, non è insolito che si instauri prima ancora di conoscersi una diffidenza reciproca, derivante dall’impressione che non si sappia cosa aspettarsi dall’altro e che le sue reazioni possano essere imprevedibili. È chiaro: avere background differenti può significare esprimersi con figure retoriche differenti, fare riferimenti a personaggi ed eventi specifici della cultura di appartenenza, o anche avere una gestualità del corpo non comprensibile dall’altro. Sembra quasi più difficile comunicare al di là della lingua, e questo in una realtà aziendale dove si deve produrre velocemente e fare efficienza viene spesso visto come un problema.

Tuttavia si è visto che la coesistenza di diversi background culturali in azienda non solo permette di avere prospettive differenti rispetto a idee e problemi, ma invita le persone ad uscire dalla propria comfort zone, esplorare ed arricchirsi quotidianamente, diventando un vero e proprio elemento strategico per qualunque team. L’ambiente lavorativo, fisico o virtuale che sia, diventa interessante e stimolante. Avere ad esempio una persona che fa Ramadan, o che prega, che indossa abiti religiosi, che annuisce in maniera differente, che affronta un problema con un approccio nuovo, che ha una diversa idea di leadership, che sia cresciuto con programmi tv differenti, o centinaia di altre cose come queste…genera ricchezza per i dipendenti e va a costituire un ambiente lavorativo in grado di attrarre talenti da tutte le culture e farli sentire i benvenuti, poiché non vi è un normale ed un diverso, un giusto ed uno sbagliato, ma è tutto ugualmente valido e meritevole di essere raccontato.


4.4 Lingua

Trattiamo la lingua separatamente dalla cultura perché in un contesto aziendale multilinguistico avvengono fenomeni specifici. Da un lato spesso le aziende si sono già adoperate a creare uguali opportunità adottando l’inglese come lingua principale per permettere a tutti di comunicare efficientemente sul lavoro. D’altra parte però non è necessariamente nelle riunioni, ma in altri momenti più sociali, come durante la pausa caffè, a pranzo o momenti di ritrovo aziendali che l’inclusione viene a mancare. Se la lingua predominante nel contesto non è parlata da tutti, si creerà una situazione di disagio evidente per coloro che non potranno né ascoltare passivamente né interagire. Si crea sostanzialmente un blocco all’integrazione di una porzione di dipendenti, con impatti sulla produttività e la felicità della persona. È facile sentirsi alienati quando non si ha modo di raccontarsi per ciò che si è e si viene solamente inclusi nella conversazione quando c’è da produrre, diventando così simili a macchine.

A questo ci sono soluzioni rapide e semplici, come il fornire corsi di lingua intensivi ai nuovi arrivati e invitare tutti i dipendenti a comunicare in una lingua comprensibile per le persone presenti, tipicamente appunto l’inglese. E’ un piccolo sforzo che porta grandi risultati.

Infine non dimentichiamoci che per parlare 8 ore una lingua non nativa, anche la persona più abile necessita di un impegno emotivo superiore ad un madrelingua, e credo sia uno sforzo extra da apprezzare.


4.5 Disabilità

Partiamo ricordando che la disabilità non è solo una condizione di chi soffre una ridotta mobilità, ad esempio su una sedia a rotelle. Talvolta non è qualcosa di visibile, ma le persone che ci convivono ne devono comunque portare il peso ogni giorno, perciò teniamo la nostra mente aperta all’idea che non tutti i nostri colleghi stiano operando con le medesime possibilità. Alcune disabilità sono più complesse di altre e comprenderle può permettere di identificare il modo migliore con cui ogni individuo può contribuire attivamente al successo aziendale.

La seconda considerazione è che numerose aziende si sono già attivate negli ultimi decenni a seguito di leggi ed incentivi che le hanno spinte ad integrare forza lavoro di persone diversamente abili. Se da un lato penso che questo sia utile a guidare un cambiamento di mentalità, d’altro lato le aziende hanno l’opportunità di attivarsi in prima persona, ad esempio prendendo contatti con associazioni e creare ruoli dedicati in cui inserire risorse con disabilità.

Anche qui, come detto in precedenza, assumere nuove persone con esigenze differenti non le fa sentire automaticamente incluse. Le aziende ora si devono attivare per adattare le strutture (uffici o negozi), le strumentazioni (dispositivi, software e siti), nonché i loro prodotti per riflettere le esigenze di una porzione di pubblico spesso trascurata. Si tratta di passi lenti, ma obbligati, verso la normalizzazione di un mondo che viene spesso nascosto per non mettere in difficoltà chi non sa confrontarsi con la complessità di alcune condizioni.

A tal fine si può partire dall’idea che ognuno di noi, a prescindere da ciò che ci differenzia, condivide i medesimi grandi obiettivi: amare ed essere amati, avere uno scopo, vivere sereni e felici. Questa è la base su cui fondare aziende più umane che sappiano meglio riflettere la realtà che ci circonda con tutte le sue sfumature.


4.6 Età ed età percepita

Ho deciso infine di inserire altri due punti di diversità, non abbastanza discussi a mio avviso, ma molto ricorrenti. Il primo è l’età.

È un dato di fatto. Molte aziende non assumono persone oltre i 50, o perché hanno troppa esperienza per il ruolo, o perché troppo in là con gli anni per inserirsi in un team giovane; nulla comunque che abbia a che vedere con l’effettivo contributo che potrebbero apportare. Parallelamente anche per i giovani più talentuosi risulta spesso impossibile ricoprire ruoli di responsabilità, che secondo alcuni richiedono che il candidato possieda una certa esperienza di vita che lo renda più maturo.

Se da un lato età ed esperienza possono certamente andare di pari passo, dall’altro non vi è una correlazione diretta con la performance lavorativa. Sembra più l’ennesimo bias con cui semplifichiamo la realtà per renderla meno complessa da gestire. Una persona può infatti
avere 60 anni ed essere un ottimo fit per un ruolo junior, perchè magari cerca solo qualcosa di poco impegnativo con cui avviarsi verso la pensione. E parallelamente non dimentichiamoci di tutti quei giovani che hanno fondato startup di successo ancora ventenni e tirato su imperi da zero, mentre per diventare manager in contesti aziendali viene richiesta una presunta maturità connessa all’età biologica, con uno sbarramento prima dei 30-35.

Tengo poi anche a menzionare l’età percepita, oltre a quella biologica, come ulteriore layer di discriminazione. Per alcuni ad esempio, al fine di ricoprire ruoli di responsabilità serve anche un certo aspetto maturo e forte, che possa trasmettere la professionalità e la sicurezza che sa dare “un uomo, ma non un ragazzo”. Parallelamente bisogna fare attenzione a non risultare troppo adulti o seri nel look, o si rischia di essere percepiti inadatti ad un team dinamico e giovane. Insomma, tante considerazioni personali che davvero non hanno nulla a che vedere con le skill lavorative e che classificano le persone per come appaiono e non per ciò che sanno fare.


4.7 Aspetto fisico

L’argomento può quindi essere facilmente esteso all’aspetto fisico in generale. E’ un tipo di discriminazione molto tipico di contesti più tradizionali, dove corrispondere a certi canoni estetici è sinonimo di professionalità e capacità. E’ evidente che questi concetti siano molto ben radicati nella nostra educazione, e benché molti di noi ormai sappiano che l’abito non fa il monaco, il primo pensiero nel giudicare chi ci sta davanti è sempre una valutazione estetica, anche durante un colloquio.

È così che le risorse umane non assumeranno candidati che non si allineano all’immagine aziendale, come un ragazzo che indossa uno smalto o ha dei tatuaggi, una ragazza coi capelli rasta o con le labbra rifatte, o semplicemente qualcuno con un outfit sbagliato. Questo perché l’idea è sempre che certe caratteristiche esteriori veicolino un modo d’essere interiore.

Le azioni da intraprendere qui sono banali quanto sfidanti, cercando di fare un passo indietro rispetto alla nostra prima impressione e lasciar parlare le capacità delle persone, cercando di garantire che possano essere se stesse appieno. Solo così creeremo un ambiente lavorativo di accettazione ed inclusione, dove non ci sentiamo in dovere di essere qualcun altro per andare bene.


5. Conclusioni

Se ci mettiamo ora il cappello da talent scout e vediamo quanti potenziali membri rimangono nel nostro pool di candidati dopo aver applicato tutte le esclusioni finora menzionate, si capisce come mai si sentano spesso le aziende lamentarsi che non si trovano lavoratori. Ci si sta rivolgendo ad una percentuale di popolazione assai inferiore al totale disponibile là fuori.

La cosa positiva è che quanto discusso qui non è più il famoso elefante nella stanza a cui nessuno presta attenzione. Sempre più aziende si attivano con azioni concrete, ed abbiamo oggi storie di successo e grandi fallimenti che ci testimoniano l’importanza di non trascurare il tema dell’inclusione. I dipendenti stessi sono diventati rumorosi nel testimoniare la tossicità
di alcuni ambienti lavorativi, tramite siti come Glassdoor, dove hanno finalmente spazio per raccontare le loro esperienze ed essere promotori o detrattori. E’ una rivoluzione, perché il lavoratore è diventato un critico esigente, che mette l’azienda sotto una lente e ne misura il valore in base a quanto lo fa sentire benvenuto, accettato e sopportato.


6. I prossimi passi

Credo quindi che ci siano oggi sfide molto interessanti per imprenditori e manager: portare in porto una trasformazione digitale di qualità, sviluppare politiche di lavoro agile e far sentire ogni dipendente incluso e supportato, mentre si continua a gestire le attività quotidiane in maniera sostenibile. Non si fa dall’oggi al domani e non senza le giuste competenze ed una mentalità aperta disposta a rimettersi in discussione.

Sono però contento di aver almeno sfiorato la superficie di questi argomenti oggi con voi, sperando di aver dato qualche spunto interessante su cui iniziare a lavorare. Se voleste poi saperne di più, siete invitati al prossimo episodio di Windows Interview dove, assieme al padrone di casa Bruno Carenini, approfondirò le tematiche di D&I, con un particolare focus sul mondo LGBT, proponendo anche qualche idea pratica per avviarsi sul percorso dell’inclusione nella propria realtà aziendale.


Author: Lorenzo Riberto, Senior Omnichannel Program Manager Rossignol Group

Lorenzo Riberto

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